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"Quando il viandante canta nell'oscurità, rinnega la propria apprensione,

ma non per questo vede più chiaro"

(S. Freud)

Fabio Livio Galimberti

Aggiornamento: 13 dic 2020



Con l’invenzione del concetto di plusmaterno Laura Pigozzi ha aumentato la mia sensibilità a certe situazioni familiari morbose. E la ringrazio, i suoi libri, “Mio figlio mi adora” (Nottetempo), “Il plusmaterno” (Poiesis) e “Troppa famiglia fa male” (Rizzoli), di cui voglio fare presto una recensione, hanno fatto centro nella mia percezione. Così, al di là delle situazioni cliniche in cui ci sono mostruosi inglobamenti genitori-figli o opere artistiche in cui l’abnormità relazionale è messa chiaramente in evidenza e sollecita il giudizio critico dello spettatore, faccio attenzione anche a certe piccole scene che possono passare inavvertite. Scene che sono le peggiori, perché alla fine ti entrano sottopelle e ti fanno sembrare normale e giusto quello che non lo è. Qui ci starebbe un gioco di parole triviale con “sottopelle”, ma lascio perdere. Però, segnalo ugualmente l’effetto castrante che fanno queste scene. E non sto dicendo della “buona” castrazione, quella simbolica, di cui parliamo in psicoanalisi. È una pessima castrazione, quella della chance separativa di un figlio.

L’altra sera guardando un filmetto, “Per il tuo bene”, me ne sono trovato davanti una. Era con Isabella Ferrari, madre stesa sul corpo della figlia, un’adulta, a sua volta sdraiata sul divano. Perché era lì adagiata, corpo su corpo, totalmente avvolgente, una mano sul sedere, l’altra sulla schiena, quasi in una presa rugbistica per non farla scappare? Per consolarla della fine di una storia d’amore. Perché certi amori finiscono, ma non quello di una madre. Quello ti segue fino alle lacrime. E per quelle lacrime, se non si può cambiare la madre, bisogna almeno cambiare divano…


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Fabio Livio Galimberti

Aggiornamento: 13 dic 2020



Mi è capitato di spiegare il concetto di “simbolico” con la storiella dei due uomini sorpresi nella foresta da un leone: uno dei due malcapitati riesce a mettersi in salvo salendo su un grande albero, mentre l’altro all’inizio, correndo velocissimo attorno a questo grande albero senza essere acchiappato dal leone. Quest’ultimo però a un certo punto si stanca e la belva si fa sempre più prossima alle sue chiappe, così il compagno dall’alto gli grida: “Stai attento, ti sta per prendere!”. E quello sotto lo rassicura: “Non ti preoccupare, ho almeno due giri di vantaggio”.

A volte non soltanto i simboli sono distanti dall’esperienza, ma anche i ragionamenti migliori o apparentemente tali. L’esempio per me più significativo è quello di Achille e la tartaruga, ossia il celebre paradosso di Zenone, in base al quale in una gara di corsa, se la tartaruga parte con un vantaggio di spazio, non potrà mai essere raggiunta dal piè veloce.

È ovvio che nell’esperienza non è così e, infatti, Diogene di Sinope per confutarla non ricorse a qualche ragionamento: semplicemente si alzò e si mise a camminare. Ma volendo ricorrere al ragionamento il paradosso è confutabile anche matematicamente. Non so bene ripetere come, online si può trovare tutta la spiegazione matematica. Anche su wikipedia.

Zenone inventò il paradosso di Achille e la tartaruga per difendere le tesi del suo maestro Parmenide e sostenere l’illusorietà del movimento. Oggi, nel nostro mondo tecnologico per fare l’esperienza di questa illusione, ci basta salire su un tapis roulant in funzione e metterci a correre. Un filosofo contemporaneo, in una comunicazione privata, ha preso questo esercizio sportivo come buon esempio della scemenza umana: che senso ha mettersi a correre e rimanere fermi? Non fa una piega.

Però sono sicuro che questo filosofo non si è mai messo a correre su un tapis roulant e probabilmente non ha nemmeno corso in questo recente periodo di lockdown, quando era vietato fare attività sportiva e si doveva rimanere nei pressi della propria abitazione. A me è capitato. E dato che ero abituato a fare dieci chilometri di corsa due/tre volte alla settimana, ho deciso di fare quello che potevo: mi sono messo a correre in giardino. Ho un giardino piuttosto grande, ma la sensazione di idiozia, di criceto sulla ruota e del pirlare a vuoto non me l’ha tolta nessuno. Così, invece di fare la mia oretta di corsa (questa è la prestanza), ho ridotto a venti minuti/mezz’ora la mia attività, perché la sensazione di stupidità era fortissima. Me l’ha confermata anche mia figlia, che ha ricevuto un messaggio da un’amica dirimpettaia: “Tuo padre si è messo a correre in giardino”. Vi assicuro che su un tapis roulant mi sarei sentito molto meno scemo. Bisogna fare l’esperienza.

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Fabio Livio Galimberti

Aggiornamento: 13 dic 2020



Suona così il titolo di un bel libro recente di Giuseppe Pontiggia, con trentasette lezioni di scrittura. Lo trovo un buon consiglio: per scrivere bene fate altro. Assomiglia a quello che è entrato nella cultura popolare con il film The Karate Kid: metti la cera, togli la cera…

Ma lo trovo un buon consiglio anche perché non ho mai capito, da quando sono nate le scuole di scrittura creativa, come si possa insegnare la creatività nello scrivere. È qualcosa che si può trasmettere? O è qualcosa che si oppone ad ogni trasmissione? È una domanda che vale per la creatività in generale.

Perché la creatività è sempre un po’ ex nihilo. Non cito le autorità intellettuali che lo sostengono né gli artisti che lo sperimentano. Ma è così, bisogna fare un po’ tabula rasa, cancellare, elidere per poter creare.

Giuseppe Pontiggia compendia l’idea nell’aforisma “scrivere non è trascrivere”.

Ecco, c’è una cancellazione in particolare che consiglierei nelle scuole di scrittura creativa, che è un modo in più per “fare altro”. Magari è già proposta e allora dovrei solo informarmi meglio. Comunque, la trovo congeniale. Mi è venuta in mente leggendo dei testi, che hanno dei passaggi che mi suonano male: perché non ritoccarli, perché non riscriverli parzialmente, limarli, trasformarli in quei punti stonati perché suonino meglio? Sarebbe riscrittura creativa.

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