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"Quando il viandante canta nell'oscurità, rinnega la propria apprensione,

ma non per questo vede più chiaro"

(S. Freud)

  • Fabio Livio Galimberti


La scrittrice Viola Di Grado ha fatto delle considerazioni interessanti sulla “teoria del labelling”, ossia sulla “smania compulsiva di etichettare la sessualità” che oggi dilaga (https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/sessualita-etichetta-sesso-identita-euy590eu). Nell’articolo descrive bene come le cosiddette etichette abbiano “svolto un ruolo fondamentale nella lotta per i diritti delle persone Lgbtq” e come adesso sembrino però esprimere “nient’altro che un’ansia di catalogarsi per confluire immediatamente in un gruppo” e uscire dalla propria solitudine. Le ultime, quelle fresche fresche sono “demisexuals”, “grayromantic”, “recipromantic”, “aroflux”. Ce n’è per tutti i gusti, anzi per i gusti di tutti.

L’articolo è di un mese fa, ma mi è tornato in mente dopo aver commentato ieri un passo di Lacan nel quale lo psicoanalista francese dice che un certo tipo di individuo è importunato dal nome proprio e che in fondo è “un Senza-Nome”.

Nel mio commento dicevo come per ognuno sia difficile associare il proprio nome a un certo modo di godere, anche sessuale, e come sia preferibile godere in modo anonimo, non singolare, almeno sul piano della definizione verbale. Le etichette, benché un nome lo diano, quello appunto dell’etichetta, in realtà rendono anonimo il proprio godimento, lo disperdono nel collettivo, lo confondono nella folla, facendolo rientrare in una categoria, anche se la categoria rappresenta una minoranza.

La vera minoranza, che non è una minorità, è la propria. Ma quando si teme il giudizio di minorità (perversione, stranezza, devianza), è meglio uscire dalla solitudine e rientrare almeno in una minoranza. E se si è più di uno, quando si vuole essere più della propria solitudine nel godere, si diventa maggioranza e Ubi maior

La frase era un po’ involuta, ma spero si sia capito. Nel rapporto con la sessualità ognuno fa categoria a sé, è l’unico esemplare di una classe, cioè la propria. Il vero problema per ognuno è mettere la firma sul proprio godimento, cioè dare il proprio nome singolare a quel modo di godere del corpo che è il solo che c’è.

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  • Fabio Livio Galimberti


Che cosa facciamo quando parliamo? Lacan rispondeva che desideriamo essere riconosciuti. Che vuol dire? Provo a dirlo con qualcosa che mi è capitato. Anni fa, non pochissimi ormai, facevo l’obiettore di coscienza in una comunità per minori, che era amministrata da una persona che amava il potere e amava anche incutere timore. Un giorno, questo dirigente è venuto in struttura e mi ha convocato nella stanzetta degli operatori. Lì ha cominciato a dirmene di tutti i colori, urlando, riguardo a una faccenda di lavoro, che ora proprio non ricordo. Quello che ricordo è che la mia soddisfazione era stata ribattere con estrema calma e senza scompormi alle sue sfuriate. Che bella soddisfazione! Me n’ero uscito dalla stanzetta tutto fiero del mio contegno, credendo di avergli fatto capire che i suoi modi autoritari e arroganti a me non facevano né caldo né freddo. Che poteva urlare quanto voleva, ma che non mi toccava. Risultare impassibile era stato il mio desiderio di riconoscimento.

Ma il suo? Il suo l’ho capito uscendo dalla stanzetta. Perché sono andato in cucina e la cuoca, personaggio speciale nella vita di quella comunità, una vera e propria protagonista, mi ha fatto cadere dal pero della mia fierezza. Mi ha guardando complice e con un sorriso stirato mi ha detto: “Che lavata di capo ti ha dato, eh!?”. E sì, proprio una lavata di capo, perché questo era stato il suo desiderio di riconoscimento nella sgridata: farsi sentire fuori, da altre orecchie, per essere riconosciuto come capo.

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  • Fabio Livio Galimberti

Aggiornamento: 13 dic 2020



Don Giovanni va visto a teatro. E magari dell’Opera. In questi tempi di chiusura, però, ci vogliono altre scelte. Quella della Città di Parma e di Michela Murgia, ad esempio, che portano online lo spettacolo “Don Giovanni, l’incubo elegante”. Certo, quello dal vivo, ça va sans dire, è un’altra cosa, perché la vena attoriale di Michela Murgia si esprime al meglio e ci sono quelle interazioni con il pubblico (penso solo alle risate) che fanno parte dello spettacolo. Ad agosto all’aperto ai Bagni misteriosi del Franco Parenti è stata tutta un’altra suggestione, tutto un altro divertimento e anche la durata ha avuto il su perché.

Però quello andato in onda sul canale youtube della Città di Parma e in diretta Facebook ha avuto la sua intensità. E ci trovate tutta la forza di una lettura originale di un personaggio che ha avuto più letture che donne. E non so se mi spiego. Se mi spiego come il catalogo di Leporello, che lascio a voi scoprire dove la scrittrice ce lo fa ritrovare.

La lettura di Michela Murgia si ispira anche a diversi testi. Due in particolare, che cita e si ritrovano in molti passaggi del suo monologo: lo splendido E Susanna non vien, di Leonetta Bentivoglio e Lidia Bramani e poi – la ringrazio – il mio Il principe nero. Don Giovanni, un sogno femminile.

In proposito sono molto significative le chiose che Michela Murgia fa e le sue intuizioni. Una in particolare mi ha colpito. Quella del doppio inganno. Don Giovanni – forse mi ripeto un po’ ma è importante – punta una donna solo se è onorata. La sua condizione nella vita amorosa – si fa per dire “amorosa”, sarebbe meglio dire “amatoria” – è che ci sia l’onore della donna da rubare. Quello per cui ha fiuto è l’onor di femmina. È per questo che una volta disonorata gli volta le spalle e non se la fila più.

Però con Donna Elvira compie un capolavoro di bastardaggine logica. O di bastardaggine e basta, se preferite. L’ha già disonorata, dunque che gliene importa più? Come si fa a disonorare una donna se è già disonorata? È impossibile. Qui dovrei citare Lacan, che afferma “il reale è l’impossibile”. Dato che l’ho fatto, allora, diciamolo, Don Giovanni compie l’impossibile e si avvicina al reale nell’erotismo. Michela Murgia ce lo fa notare con finezza questo avvicinamento al reale, questo gioco logico, “crudele e perverso”, come lo definisce. Don Giovanni si traveste con i panni del suo servo per sedurre la domestica di Elvira e manda Leporello, il suo servo, travestito con i suoi panni di padrone, a scoparla una seconda volta. Così riesce a chiudere il ciclo dell’umiliazione di una donna con un inganno al quadrato. La quadratura del cerchio, appunto, che mostra quel trionfo di maschere e di illusioni che imperversa nel campo minato dell’amore. Brava Michela Murgia!

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